Come ogni inverno, puntuale quanto l’inizio dell’Avvento, torna ciclicamente il dibattito sulla patrimoniale. Una parte della politica sostiene che il patrimonio in Italia non sia tassato a sufficienza e che una “tassa sui ricchi” sarebbe la soluzione miracolosa per salvare il welfare, finanziare la sanità e ridurre le diseguaglianze.
È un argomento che funziona benissimo negli slogan, un po’ meno quando si guardano i numeri reali e il funzionamento dell’economia.
In realtà, prima di chiedersi se serva una patrimoniale, bisognerebbe chiarire una cosa molto semplice: in Italia la patrimoniale esiste già. E non da oggi.
La falsa idea che in Italia non esistano tassazioni patrimoniali
Dire che il patrimonio non è tassato equivale a negare evidenze sotto gli occhi di tutti. Nel nostro Paese esistono numerose forme di imposizione patrimoniale, spesso più pesanti rispetto a quelle di altri Stati europei. Tra queste:
- IMU sugli immobili non prima casa (e in parte anche sulla prima, tramite addizionali comunali);
- TARI, che pur essendo un tributo sui rifiuti è calcolato sui metri quadri dell’immobile;
- Imposta di bollo su strumenti finanziari e depositi titoli;
- Tassazione delle cripto-attività;
- Tassazione dei rendimenti finanziari (interessi, dividendi, plusvalenze);
- Imposte su successioni e donazioni.
Tutte patrimoniali vere e proprie.
Continuare ad affermare che “in Italia manca una patrimoniale” è semplicemente falso.
E soprattutto significa ignorare un punto cruciale: le tasse non le pagano gli immobili, né le rendite: le pagano le persone, che nella maggior parte dei casi usano una parte del proprio reddito per farlo.
Una casa di proprietà non è il simbolo di ricchezza. Spesso è un costo
Circa il 72–75% delle famiglie italiane possiede almeno un immobile, percentuale ben più alta della media europea (circa 69%). È il frutto di decenni in cui la casa è stata vista come garanzia, sicurezza, stabilità.
Questo però non significa che gli italiani siano “ricchi”.
Infatti:
- La prima casa non è un investimento: è un consumo, l’alternativa all’affitto per avere un posto dove vivere.
- Non sempre gli immobili si rivalutano: nelle grandi città sì, ma nei piccoli centri – dove vive la maggior parte della popolazione – spesso si svalutano o restano illiquidi.
- Case grandi e datate possono diventare un peso economico soprattutto per anziani o nuclei ridotti.
Introdurre una patrimoniale generalizzata significherebbe colpire milioni di famiglie normali, non “ricconi con villa in Costa Smeralda”.
E rischierebbe di costringerle a vendere immobili a prezzi bassi per reperire liquidità.
Una patrimoniale che ti obbliga a svendere la tua casa non è equità: è una trappola sociale.
Einaudi non è l’argomento giusto per sostenere una patrimoniale oggi
Spesso si cita Luigi Einaudi per giustificare la necessità di una patrimoniale. Ma anche qui si omette volutamente il contesto.
Einaudi scrisse nel 1946, dopo la guerra, in un Paese devastato, senza industria, senza risorse, con un bilancio pubblico allo sfascio.
In quelle condizioni straordinarie – e solo in quelle – egli propose una patrimoniale straordinaria e temporanea, utile a:
- colpire ricchezze accumulate anche grazie all’economia di guerra,
- evitare un ulteriore drenaggio sul già miserrimo reddito da lavoro,
- ricostruire la fiducia nelle istituzioni economiche.
Einaudi non immaginava mai una patrimoniale ordinaria e permanente.
Anzi, metteva in guardia dal presentarla come “unica imposta democratica”, ricordando che non esiste una differenza sostanziale tra imposta sul reddito e imposta sul patrimonio: a pagare è sempre la stessa persona.
Il mito che “tanto la pagano i super-ricchi”
I sostenitori della patrimoniale affermano di voler colpire solo “i grandi patrimoni”.
Il problema è che i super-ricchi non detengono la loro ricchezza in case bensì in:
- partecipazioni societarie,
- quote di aziende familiari non quotate,
- strutture societarie complesse,
- asset internazionali.
E qui sorge una domanda decisiva: come si valuta una partecipazione in un’azienda non quotata?
Non esiste un mercato di riferimento, non esiste un prezzo immediato. Qualsiasi stima sarebbe arbitraria e contestabile.
Inoltre, i veri ricchi hanno mobilità internazionale: se la pressione fiscale diventa eccessiva, possono “votare con i piedi” e trasferirsi in giurisdizioni più favorevoli.
L’Italia, che negli ultimi anni ha cercato di attrarne tramite la flat tax per nuovi residenti, rischierebbe di ottenere l’effetto opposto: perdere capitali, competenze e investimenti già scarsi.
Un Paese può anche tassare i ricchi: ma deve prima riuscire a tenerli.
La vera questione: la patrimoniale non risolve nulla
Anche ammettendo che una patrimoniale porti gettito nel primo anno, gli effetti successivi sono noti:
- calo dei consumi, perché le famiglie si sentono più povere;
- riduzione degli investimenti, perché la ricchezza privata è drenata;
- crollo dei valori immobiliari, perché cresce l’offerta forzata di case;
- fuga di capitali internazionali;
- gettito decrescente nel tempo, come accaduto in Francia, Germania, Austria, Danimarca e Svezia, che infatti l’hanno abolita.
È una tassa che produce molto rumore politico ma poca efficienza economica.
E soprattutto non aumenta la “giustizia sociale”: colpisce soprattutto la classe media, non i super-ricchi.
Conclusione: meno ideologia, più realismo
La patrimoniale non è la bacchetta magica per salvare il welfare, né un atto di giustizia verso i “ricchi”.
È piuttosto una tassa che l’Italia già applica in moltissime forme e che, se inasprita:
- penalizzerebbe le famiglie normali,
- impoverirebbe il ceto medio,
- danneggerebbe investimenti e crescita,
- incentiverebbe la fuga dei capitali,
- porterebbe un gettito limitato e temporaneo.
Se l’obiettivo è sostenere la crescita e rafforzare lo Stato sociale, la via non è tassare ciò che gli italiani possiedono, ma aumentare ciò che gli italiani producono.